Lo schiaccianoci
Lo Schiaccianoci dei Broche è un lavoro teatrale nato dallo studio del racconto di Hoffman: “lo schiaccianoci e il re dei topi”, che si è contaminato nel work-in-progress di altre letture: “il signore delle mosche” di Golding e la biografia de “il petiso orejudo” bambino killer dell’Argentina di primo ‘900.
I Broche in questo spettacolo usano la metafora come medium espressivo. In scena viene rappresentato l'archetipo della Grande Madre come entità generatrice di vita e al contempo devastatrice.
Il prodotto partorito dalla Grande Madre che in questa performance viene analizzato è l’infanzia. Nella sua peculiarità di innocenza l’infanzia racchiude in egual misura una dose di cattiveria e una dose di bontà che insieme costituiscono l’istinto e quindi l’uomo bestia.
Nella metafora rappresentata i personaggi in scena costituiscono ognuno una parte della Grande Madre: le due attrici danno il corpo e la voce della stessa donna, in alcuni momenti arcaica, in alcuni momenti contemporanea, ma già decadente. I due figli in scena sono la coscienza di lei: il si e il no delle scelte. Poi c’è un uomo irreale, forse un’ossessione che appare in video.
Nello spettacolo viene raccontato un vissuto femminile in cui la morale e le convenzioni sociali combattono con la bestialità intrinseca umana. La donna partorirà un’esistenza, istintivamente pregna di bontà e cattiveria, che la vita poi condizionata dalla morale e dall’ordine costituito la costringerà a distruggere. La madre genera una prole buona o cattiva nella stessa misura. La madre poi mediante l’educazione castra l’esistenza della parte ritenuta bestiale (anche se naturale), per civilizzare l’uomo e dargli una vita con una morale.
Nella trasposizione scenica il femminile verrà ricomposto delle sue parti sino ad un atto di purificazione finale in cui il peccato verrà ucciso, confermando la violenza tacita della morale. La donna ne uscirà integra, nè vincitrice nè vinta nei confronti dell’inestirpabile istinto umano.